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- Ray-Ban RX 8780D 1061 (in copertina)
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Le armature rappresentano molto più che strumenti di protezione: sono veri e propri simboli di storia, arte e cultura. Ogni pezzo racconta vicende di battaglie, eroismo, prestigio e maestria artigianale. Dai primi elmi di bronzo delle civiltà antiche alle complesse corazze rinascimentali, ogni armatura incarna secoli di evoluzione tecnologica e artistica. Per gli appassionati di collezionismo e rievocazioni storiche, possedere un’armatura significa custodire un frammento di passato, un oggetto che trasmette emozioni, cultura e senso di meraviglia in ogni dettaglio.
Le prime armature erano realizzate con materiali leggeri come bronzo e cuoio, spesso rivestite di tessuti e pellami. In epoca romana, le legioni indossavano corazze segmentate chiamate lorica segmentata, studiate per garantire protezione e mobilità. Con l’avvento del Medioevo, la diffusione delle armi da taglio e da punta portò all’adozione di corazze complete in acciaio, costituite da elmi, pettiere, spallacci, bracciali e gambali. Ogni epoca vide un’evoluzione funzionale e stilistica, rispondendo alle necessità militari e al gusto estetico delle classi nobiliari. Nel Rinascimento, le armature diventarono veri e propri capolavori, decorate con incisioni, fregi e stemmi familiari, trasformando la protezione in arte visiva e simbolo di status.
Le armature possono essere classificate in diverse tipologie in base all’epoca, al materiale e alla funzione. Tra le principali troviamo:
Le rievocazioni storiche consentono di vivere la storia in prima persona. Tornei medievali, battaglie simulate e rappresentazioni di vita quotidiana del passato permettono di osservare armature autentiche o repliche fedeli in azione. I partecipanti imparano tecniche di combattimento antico, posture corrette e movimenti con il metallo addosso. Il pubblico può ammirare la precisione dei dettagli, il peso dei materiali e la funzionalità delle articolazioni. Ogni armatura diventa uno strumento narrativo, capace di trasmettere emozioni e raccontare storie di epoche lontane.
Il cinema e il teatro hanno contribuito a rendere le armature protagoniste del nostro immaginario. Dai film storici come Il Gladiatore e Braveheart alle saghe fantasy come Il Signore degli Anelli e Game of Thrones, ogni armatura è studiata nei minimi dettagli per risultare credibile. Costumisti e designer replicano incisioni, stemmi e patine, creando un impatto visivo realistico. Le armature scenografiche, sebbene spesso realizzate in materiali leggeri, mantengono la resa estetica e diventano veri e propri strumenti di narrazione visiva, capaci di trasmettere identità e potere dei personaggi.
Possedere un’armatura è un’esperienza unica per i collezionisti. Esistono armature storiche autentiche, repliche artigianali e pezzi restaurati che acquisiscono valore nel tempo. Ogni armatura racconta una storia di tecnica, epoca e gusto artistico. La manutenzione è fondamentale: lucidatura, protezione dalla ruggine e conservazione dei dettagli assicurano durata e fascino. Collezionare armature significa costruire una galleria di oggetti che uniscono arte, storia e design, diventando testimonianze tangibili del passato.
Il cosplay ha trasformato le armature in oggetti di espressione creativa. Repliche in resina o foam permettono di riprodurre modelli storici o fantastici con comfort e leggerezza. Alcuni cosplayer aggiungono effetti speciali, luci LED o dettagli personalizzati, creando esperienze immersive. L’armatura non è più solo protezione: diventa costume, narrazione e performance scenica, capace di emozionare sia chi la indossa sia il pubblico. La combinazione tra fedeltà storica e libertà creativa rende ogni armatura un’opera unica e spettacolare.
Molte armature medievali richiedevano ore per essere indossate e spesso erano personalizzate per distinguere cavalieri e famiglie nobili. Alcune contenevano scomparti segreti, incisioni simboliche e rinforzi strategici per proteggere punti vitali. Il peso medio, superiore ai 25 kg, era distribuito per garantire mobilità e resistenza. Le armature rinascimentali, oltre a essere funzionali, erano vere opere d’arte, con dettagli intarsiati, stemmi e decorazioni uniche. Ogni pezzo racconta quindi non solo la storia di un guerriero, ma anche di un artigiano e del contesto sociale in cui è stato realizzato.
Oggi le armature sono utilizzate come elementi scenografici e decorativi. In teatri, fiere e esposizioni, trasformano lo spazio con la loro presenza. Un’armatura completa su un palco o in una mostra crea un punto focale che cattura immediatamente l’attenzione. L’accuratezza dei dettagli, la patina e la lucentezza metallica restituiscono autenticità e suggestione visiva, rendendo l’armatura protagonista della narrazione scenica senza bisogno di parole.
Partecipare a workshop e laboratori con armature permette di apprendere tecniche storiche, sviluppare consapevolezza manuale e comprendere il valore culturale degli oggetti. I giovani imparano il rispetto per la storia, la disciplina necessaria per indossare armature e le tecniche di movimento corrette. Questo contribuisce alla conservazione della memoria storica e alla trasmissione di conoscenze tra generazioni. Ogni armatura diventa così un ponte tra passato e presente, tra tradizione e cultura moderna.
Le armature continuano a emozionare e ispirare. Che siano destinate a rievocazioni storiche, cinema, cosplay o collezionismo, mantengono intatto il loro fascino e la capacità di trasmettere emozioni. Ogni pezzo racconta una storia unica, trasmette tradizione e consente a chi lo osserva o lo indossa di immergersi in epoche lontane. L’armatura non è solo metallo, ma memoria, arte e narrazione, capace di catturare l’immaginazione e l’ammirazione di tutti.
Dal momento in cui ho infilato il naso in una coppia di lenti spesse come fondi di bottiglia, ho sempre pensato che il mio rapporto con gli occhiali da vista fosse una storia d’amore complicata. Li perdevo, li ritrovavo acciaccati, li lucidavo con la maglietta quando non c’era altro. Poi, un pomeriggio di ottobre, un paio di montature dal design pulito mi hanno guardato e mi hanno detto: «Ciao, ho appena bloccato una notifica spam e tradotto il menù giapponese che hai davanti». Da quel giorno la mia collezione di astucci e panni di microfibra è finita in un cassetto e sul mio naso è sbocciata una nuova era.
Per anni li abbiamo trattati come semplici correttori di vista o come accessori alla moda. Poi qualcuno ha infilato dentro le astine dei sensori, un paio di microchip e un filo di intelligenza artificiale. Il risultato è un oggetto che sa dove siamo, cosa stiamo guardando e, in alcuni casi, che cosa vorremmo leggere o ascoltare mentre lo guardiamo. Non è un telefono appoggiato sul volto, è una finestra che decide da sé cosa mostrare oltre la realtà.
Indossavo una montatura ancora in fase prototipo, regalata da un amico che lavora in uno start-up di Barcellona. Eravamo su un terrazzo assolato e, come al solito, stavo per togliere gli occhiali da sole per leggere l’orario sullo smartphone. Invece ho sentito un lieve clic vicino all’orecchio e le lenti si sono schiarite appena abbastanza da far emergere l’orologio digitale sovrapposto alla piscina sottostante. Nessun comando vocale, nessun gesto da maestro Jedi: i sensori hanno capito dal movimento delle mie pupille che volevo concentrarmi su un dettaglio ravvicinato. Ho sorriso come un bambino che trova una moneta dietro l’orecchio dello zio prestigiatore.
Quando racconto in giro che i miei occhiali sanno quando sono stanco e mi consigliano una pausa, c’è sempre chi alza le spalle e dice che preferisce restare umano. La verità è che lo siamo già stati anche quando abbiamo accettato le prime lenti bifocali di Ben Franklin. Ogni passaggio ha portato un po’ di tecnologia più vicina al corpo: prima sul naso, poi dentro l’occhio con le lenti a contatto, infine dentro il campo visivo con gli schermi a realtà aumentata. Il passo successivo non è diventare cyborg, è smettere di perdere tempo a cercare il telecomando del climatizzatore.
Durante una prova di trekking ho notato che le mie lenti si coloravano di arancio ogni volta che il sentiero si faceva più ripido. Pensavo fosse un difetto del sensore di luce, invece stava leggendo la micro-pulsazione delle tempie e interpretando lieve stress. Un’amica che lavora nel team di UX mi ha spiegato che la prossima generazione userà questi dati per proporre una breve meditazione prima di una riunione o per abbassare il volume della musica quando si sale in autobus affollato. Il bello è che non devi ricordarti di aprire un’app: l’occhiale decide per te, come fa un amico che conosce i tuoi silenzi.
Era una domenica pigia e il bancomat era chiuso. Mi sono avvicinato al bancone, ho ordinato un cappuccino e il barista mi ha chiesto se volevo usare la «modalità sguardo» per il pagamento. Ho guardato il pos, ho battuto le ciglia due volte e il contatto NFC nelle stanghette ha concluso la transazione. Il barista ha sorriso come se fosse la cosa più normale del mondo, io invece ho realizzato che il portafoglio lo avevo lasciato a casa da giorni e non me n’ero nemmeno accorto.
Negli ultimi mesi le conferenze a cui partecipo hanno cambiato registro. I keynote non gridano più «8K su una lente!» ma «zero affaticamento dopo 10 ore di utilizzo». I produttori hanno capito che il vero lusso non è la risoluzione, è poter leggere un romanzo intero su un volo intercontinentale senza bruciare la vista. I filtri luce blu sono solo l’inizio: le lenti si stanno raffreddando da sole, regolano la messa a fuoco in base alla distanza del libro e persino diffondono un leggero aroma di lavanda quando il sensore rileva troppo poco lampeggio.
Il punto caldo resta la privacy. I miei occhiali sanno dove guardo, quanto tempo ci metto a decidere se comprare quella giacca e se sto mentendo quando dico che sto solo curiosando. Le aziende promettono che i dati restano sul dispositivo, ma la tentazione di venderli è forte come un selfie al tramonto. La mia personale regola d’oro è semplice: se un paio di montature non mi fa disattivare il microfono con un gesto netto e definitivo, lo lascio sullo scaffale.
Ogni volta che ripenso a quella montatura prototipo mi torna in mente la sensazione di avere un compagno di viaggio che non giudica ma anticipa. Non c’è più la frattura fra il mondo fuori e il piccolo schermo in tasca: le informazioni scivolano sul vetro e scompaiono quando non servono. Il futuro, mi sono convinto, non è un visore che copre tutto il campo visivo ma una lente che sa quando restare trasparente.
Per ora mi gusto il lusso di svegliarmi, infilare gli occhiali e sentire la loro voce sottile che mi ricorda di prendere l’ombrello perché alle 15 cadrà una pioggia leggera. Poi esco, alzo lo sguardo e lascio che il cielo resti semplicemente cielo, senza notifiche che lo ostruiscono.
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Quando il caldo si fa sentire, il mio terrazzo diventa il quartier generale di un’operazione militare di bassa intensità. Io, un plaid leggero , un bicchiere di Aperol , e candela che odora di citronella. Le zanzare, invece, arrivano in formazione a bassa quota, sibilanti e affamate. La guerra è dichiarata: non voglio passare l’estate a scuotermi come se stessi facendo step a tempo di musica e a grattarmi come un cane infelice. Ho deciso di passare al livello successivo: la tecnologia.
La verità è che fino a poco tempo fa combattevo con armi improvvisate: spirali che puzzavano di camino, candele profumate che sapevano di rosmarino bruciato e quelle zampironi elettrici che ogni tanto emettevano un “zzzt” soddisfacente seguito da un odore di pollo fritto. Ma le zanzare, si sa, leggono i manuali di strategia militare. Sanno quando cambi posizione sul divano, quando apri la finestra e quando sei distratto dal telefono. Così ho iniziato a studiare armamenti più seri.
Un tardo pomeriggio di giugno ho fatto installare un impianto antizanzare a nebulizzazione. Sembra un nome da laboratorio chimico, ma in realtà è una rete di piccoli ugelli che si nasconde tra le travi del pergolato e, a intervalli regolari, spruzza una nuvola leggerissima di sostanza repellente. La prima volta che l’ho visto all’opera mi sono sentito un po’ James Bond: un sibilo delicato, una foschia quasi invisibile e poi silenzio. Le zanzare sono letteralmente sparite. Non le ho più sentite ronzare attorno alle orecchie mentre cercavo di leggere un thriller sotto la luce calda delle lanterne.
Il trucco sta nel timer intelligente: si accende all’imbrunire, quando il caldo si fa più umido e le zanzare iniziano il turno di caccia, e si spegne da solo verso mezzanotte, quando anche le più tenaci decidono di andare a dormire. Il liquido usato è a base naturale, niente pesticidi aggressivi, quindi posso lasciare il gatto sdraiato sul tappeto esterno in un oasi di relax senza sentirmi un mostro.
La nebulizzazione come antizanzare da esterno è solo il pezzo forte del mio arsenale. Ho scoperto braccialetti smart che vibrano appena rilevano un ronzio ravvicinato, spingendo la zanzara a desistere senza dovermi agitare come un matto. Li indosso quando vado in bici la sera: sembrano quei vecchi orologi digitale, ma invece dell’ora mostrano un piccolo led verde che mi dice “tranquillo, sei coperto”.
Poi c’è il drone caccia insetti, un regalo folle di un amico nerd. È piccolo, silenzioso e ha una telecamera termica che inquadra il corpo caldo di una zanzara a tre metri di distanza. A quel punto attiva una microventola che la spinge via, gentilmente ma con fermezza. Il primo giorno l’ho usato in casa: ho passato mezz’ora a inseguire un esemplare dal soggiorno alla cucina, cantando sottovoce l’inno di Top Gun. Alla fine la zanzara è uscita dalla finestra, probabilmente spaventata più dal rumore che dal drone.
Non serve sempre la tecnologia di punta. A volte basta una bottiglia d’acqua piazzata vicino alla porta d’ingresso con dentro un po’ di zucchero sciolto e un filo di detersivo per piatti. Le zanzare ci entrano, affondano e non tornano fuori. È crudele, lo so, ma dopo anni di punture sulle caviglie ho smesso di provare rimorso. Ho anche installato zanzariere magnetiche: si aprono e si chiudono da sole con lo scatto di un elastico, così il gatto può entrare e uscire senza che io debba alzarmi ogni tre minuti.
Di sera, quando il cielo si tinge d’arancione, accendo l’impianto a nebulizzazione e mi preparo una tisana fredda. Mi siedo sulla sdraio, appoggio il cellulare sul tavolino e lascio che la brezza faccia il resto. Non c’è più bisogno di agitarsi, di coprirsi di creme oleose o di accendere candele profumate che puzzano di eucalipto. Il terrazzo è diventato un’isola felice. Le zanzare hanno capito che qui non c’è più posto per loro. E io, finalmente, posso concentrarmi sull’unica guerra che vale davvero la pena combattere: scegliere il libro giusto da leggere sotto le stelle.
Una piccola confessione prima di iniziare: la prima volta che ho infilato il regolatore in bocca e ho stretto l’acceleratore di uno scooter subacqueo, ho rischiato di mandare in cortocircuito la maschera dal sorriso. Da allora sono diventato un po’ un evangelista di questi gioiellini elettrici che, in fondo, non sono altro che la naturale evoluzione di tutto ciò che ci piace di Star Wars e di Jules Verne infilato in un pacco tascabile. Se anche tu sei il tipo che controlla la profondità sul quadrante dell’orologio mentre bevi un espresso, preparati: stiamo per scendere.
Per chi ha sempre pensato che le immersioni fossero un’attività lenta e meditativa, lo scooter subacqueo è l’equivalente di passare dal monociclo alla Vespa. La prima volta l’ho noleggiato in un centro sulla costa croata: un T-bar di alluminio, due eliche protette da gabbie di plastica e una batteria al litio che sembrava uscita da un laboratorio di telefonia. Il briefing è durato meno di un minuto: «Premi qui per andare, lascia qui per galleggiare, non superare i venti metri». Detto fatto. Il motore parte con un ronzio così discreto da far sembrare il silenzio un rumore di fondo. In tre secondi ti porti dietro una scia di bollicine che sembra la coda di una cometa.
Quello che non ti dicono sul volantino è la sensazione di libertà: puoi coprire distanze che in apnea normale richiederebbero bombole doppie e un’ora di pianificazione. Ti fermi a cinque metri, guardi su e vedi la luce del sole che si frantuma sulla superficie come vetro rotto. Poi spingi di nuovo e ti ritrovi a dieci, dodici metri, accanto a una parete di corallo che sembra una città neon di notte. In quel momento capisci perché i delfini sorridono sempre: è difficile non farlo quando il mondo scorre via sotto di te a velocità controllata.
Parlando con gli ingegneri che stanno dietro a marchi come Sublue o Aquadart Nano, ho scoperto che la corsa non è più sulla potenza pura ma sull’efficienza. Le batterie di nuova generazione durano fino a due ore e ricaricano via USB-C, come il tuo smartphone. I motori brushless sono silenziosi al punto da non spaventare i pesci, cosa che i pesci stessi sembrano apprezzare: durante un test alle Seychelles mi sono trovato in mezzo a uno stormo di barracuda che non si è mosso di un millimetro. Se mi avessero chiesto il passaporto, probabilmente glielo avrei dato.
Il bello è che la tecnologia sta scendendo in prezzo più in fretta di quanto scenda l’acqua in un secchio. Se fino a due anni fa un modello base costava quanto un laptop top di gamma, oggi trovi entry level attorno ai quattrocento euro, il prezzo di una buona muta. E non è solo giocattolo per influencer: le associazioni di biologia marina li usano per monitorare le praterie di posidonia senza disturbare l’ecosistema. Insomma, stiamo assistendo alla nascita di una categoria intermedia fra il nuotatore con pinne e il sub tecnico, un po’ come quando sono arrivati gli e-bike e improvvisamente tutti abbiamo scoperto che le salite in montagna non erano più un supplizio.
Non serve prenotare un volo intercontinentale. A Lanzarote, per esempio, basta entrare a Puerto del Carmen, noleggiare lo scooter al centro sub di Playa Chica e sei già sopra un vulcano spento ricoperto di farfalle di mare. In Italia, l’Argentario offre fondali a picco a cinque minuti dalla spiaggia: ti cali, premi l’acceleratore e in meno di tre minuti sei davanti a una parete verticale tappezzata di gorgonie rosse che ondeggiano come tende alla finestra. Se invece vuoi restare in zona euro ma cambiare aria, le Canarie minori sono un parco giochi: a La Restinga, sull’isola di El Hierro, puoi seguire la cresta di un canyon sottomarino che sembra il set di un film di fantascienza low budget.
Il trucco è partire con l’idea di non dover fare nulla di particolare: lasci che sia il mare a proporre il programma. Un giorno è bastato un banco di sardine che mi ha usato come pilastro di una rotatoria marina per farmi decidere di restare sotto fino alla fine della batteria. Al rientro, l’istruttore mi ha guardato e ha detto: «Sembri uno che è appena tornato da un concerto». Non gli ho dato torto.
Detto tra noi, l’unico vero pericolo è la dipendenza. Dopo la terza uscita ho iniziato a guardare i pesci come fossero pedoni da superare in corsa e ho dovuto ricordarmi che non sto giocando a Mario Kart. Poi c’è il fattore vanità: è facile farsi prendere dall’idea di fare il film-maker subacqueo con la GoPro montata sul casco, ma il risultato più delle volte è un video tremolante che sembra girato durante un terremoto. La regola d’oro è una sola: goditi il momento. Se proprio vuoi portare a casa la scena, affidati a un compagno di squadra che nuoti piano e ti riprenda lateralmente.
Un’ultima chicca che mi porto dietro: prima di ogni immersione metto la playlist preferita nelle cuffie (sì, esistono modelli impermeabili), poi le tolgo prima di tuffarmi. Il ritmo resta in testa e il primo minuto sott’acqua è sempre accompagnato da una colonna sonora mentale. E se è vero che la tecnologia ci avvicina sempre di più al futuro, forse è anche vero che il futuro, in fondo, è solo un modo per tornare bambini con le pinne al posto delle braccia.